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Ma che certezze ne hai tu di questo? RUFINO. Hamelo detto Filippa ch'io vel dica. E io dubito che non vi sturbi. CURZIO. Sturbar lui mene? RUFINO. Signor . È perché non sapete che le donne sempre se attacano al peggio. CURZIO. Guardise pur ch'io non gl'impari a far le concordanzie a suo mal grado. Lui non mi deve cognoscere anco, ah?

Io, per me, farò ogni cosa pur che lo trovi. Va bene. Vuole ch'io vada sino a casa d'una certa Filippa che abita in Treio e ch'io veggia di parlar al servo di misser Curzio el quale è innamorato della figliuola. E hami imposto ch'io gli dica ch'ella è contenta e che, stanotte, ne venga su le tre ore, pur che del prezzo che molte fiate li ha mandato a offerire non gli venghi meno.

Ed holli raccusato lo patrone che fa l'innamorato con una qua a basso. Cancaro! Ecco, alla , quella che dice che me vole per marito. Alla , la voglio aspettare. CECA. Io ho trovato a punto el servo di Curzio e hogli fatto l'imbasciata. M'ha ditto ch'in casa di Filippa mi render

CURZIO amante, MALFATTO servo, TRAPPOLINO regazzo. CURZIO. Da ch'io mi levai per insino a quest'ora sono stato ad aspettar el patrone del banco ove mi sogliono venire i dinari da casa; , possendo piú aspettarlo, punto dalla cieca passione, in qua ne son venuto. Ho lasciato Rufino che gli parli e che poi se ne vada sino a casa de Filippa.

RUFINO. Perché, oggidí, non si trova amico se non finto e a pena ve lli prestaranno sul pegno, non ch'altro. CURZIO. Tu dici el vero; ma la necessitá mi sforza de andar alla mercé loro. Ma dimmi un poco: dove dici tu che ti aspettará colei? RUFINO. Ve l'ho pur detto: in casa di Filippa. CURZIO. Orsú!

Caminamo: ch'io voglio che tu vadi poi insino a casa di Filippa e che concludi el tutto. E promettegli ciò ch'ella vuole. RUFINO. Se io gli prometto ciò ch'ella vole, noi stiam conci! CURZIO. E perché? RUFINO. Per ciò che non gli basteria un papato. CURZIO. Se intende ch'ella abbi a chiedere cose possibili e non quelle che non si ponno.

CECA. E vatti con diavolo! Tu vorrai che te vega madonna e che gridi molto bene. MALFATTO. Orsú! Bona sera. Io me ne voglio andare in casa. CECA. Va' con diavolo! RUFINO solo. Io ho incontrata, poco è, la serva de Livia e hame ditto che la cosa è in ordine, pur che vi sieno i danari della dote che se gli è promessa, e ch'ella tornerá a riparlarmi in casa di Filippa.

Avvertito da Fiammetta che non gli è concesso di rattristare troppo a lungo gli altri con i suoi travagli, dopo la quarta giornata il giovane, infelice chiede perdono alle gaie donne e si propone di ridere e di muovere a riso. Però narra la novella dell’usignolo che fu preso dalla figlia, di Ricciardo Manardi, e di Filippa adultera che si liberò con un motto della pena di morte, e di Peronella, e di Calandrino pregno, e del giudice cui furono tolte le brache: torna la fierezza e la nobilt

E questi tali dichino tanto che crepino. RUFINO. Ámenne. Aspettate qui, se vi pare. CURZIO. Odi. Oh Rufino! RUFINO. Che vi piace? CURZIO. A che modo gli dirai, che non se nne accorghino li vicini? RUFINO. Giá mi ha detto Filippa ch'io dica che sono el fratello della Ceca. CURZIO. Or vanne, adunque. Odi un'altra cosa. RUFINO. Dite: che volete?