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GUGLIELMO. Oh oh! dispiacemi che per li travagli del viaggio io sia fievole e cagionevole della persona che non possa difendermi. VIGNAROLO. Or dimmi se sei Guglielmo! poiché non posso con le buone parole far che tu non sia, lo farò con i legni. GUGLIELMO. Volessero i cieli che non fossi Guglielmo o che non fossi mai stato, e che io fossi te e tu me, che io dessi e tu ricevessi le pugna!

PANURGO. Immo saepicule ve ne resi cerziore; e dubitando che voi non mi stimaste pentito dell'appuntamento, come viro probo, per mantenervi la parola nam «verba, ligant homines, taurorum cornua funes» ve l'ho qui condotto. GERASTO. Dispiacemi del vostro fastidio. Ma andiamo a riposarci, Narticoforo: questa è vostra casa. PANURGO. Entrate, di grazia, voi.

Ma ditemi se voi amate lui, e dite il vero, perché subito lo conosco. MELITEA. Io son tanto sua che, per non esser d'altri, voglio piú tosto esser della morte. Dispiacemi solo che, in misera fortuna e con tanto mio poco merito, mi sia posta ad amar tanto alto.

MANGONE. O ben, per vita mia! lo schiavo è cosí allegro e festevole, che mi fará viver dieci anni di piú: dispiacemi averlo promesso a Filigenio, ché vorrei tenermelo per mio spasso. Ma poiché Melitea sta cosí disperata, Filace, va' tu su, chiamala, ché venga giú e veggia ballar e cantar questo schiavo che le rallegrará un poco li spiriti.