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Me voresti fare le male cose come fa lo mastro alli scolari, eh? CURZIO. So ch'el confessa senza tratto di corda. MALFATTO. Ché non me li date qua, se volete? CURZIO. Non ho dinari appresso. Vieni, su la fede mia. MALFATTO. Andiamo, ! Volete che venga dinanzi o drieto? CURZIO. Vieni come vòi tu. Oh che dolce spasso è questo di costui!

CURZIO amante, MALFATTO servo, TRAPPOLINO regazzo. CURZIO. Da ch'io mi levai per insino a quest'ora sono stato ad aspettar el patrone del banco ove mi sogliono venire i dinari da casa; , possendo piú aspettarlo, punto dalla cieca passione, in qua ne son venuto. Ho lasciato Rufino che gli parli e che poi se ne vada sino a casa de Filippa.

TRINCA. Io non vo' amici carissimi, ma di buon prezzo, ché ho pochi dinari. Che sei venuto a far a quest'ora? GULONE. E tu non sai l'usanza mia? TRINCA. Non mi ricordo. GULONE. M'è venuta una disgrazia, la maggior che mi possa venire. TRINCA. Dimmela, se non è cosa di stato. GULONE. Mi muoio della maladetta fame: io son venuto a sguazzare col tuo padrone.

PANURGO. L'apparecchio per un mio amico di che ho da servirmene in un bisogno importantissimo. MORFEO. Sèrvite di me, che ti servirò al servibile e all'inservibile. PANURGO. Vuoi tu prestarmi mille scudi? MORFEO. Con che faccia cerchi a me mille scudi, che tutto intiero non vaglio dieci quattrini? Cercar dinari a me è come cercar acqua ad una pomice.

CURZIO. Se io avessi guadagnati oggi mille scudi non mi sarebbono stati cari, ancor ch'io ne abbia di bisogno, come mi è stato caro lo aver provato costui: ch'ogni volta che m'incontrava, e tu lo sai, sempre voleva ch'io lo affannassi; e ora, che de picol summa di dinari l'ho richiesto, tu l'hai sentito quello che m'ha risposto e con quanti preambuli e paroline si è scusato.

BALIA. Orgio, dopo la servitú di trent'anni, mi paga con prezzo di tanta ingratitudine. PARDO. Ma che sète per dirmi? BALIA. Sappiate che Cleria, che vi fu rapita da turchi, e vi costò tanti dinari a riscattarla, non è vostra figlia, ma è Sulpizia, figlia di Filogono; e quella Sulpizia, che è in casa nostra, è Cleria vostra figliuola. PARDO. Come dite voi questo? e come lo sapete?

PANFAGO. E se ben, innamorato di quella puttana, la poteva aver con alcuni dinari, Pirino e Forca, per maggior vostra beffe e per ridersene fra loro alla sgangherata, se hanno voluto servir de' vostri dinari: eccoli scelerati contro voi, ingiuriosi contro me e profani contro Iddio. FILIGENIO. So che tutto è vero quanto dite, e conosco che tanto eglino sono stati astuti quanto io sciocco.

Si vole che, come io sia in Banchi, tu te ne vadi fino a casa sua e che gli dichi ch'io non mancarò di andarvi per ogni modo stanotte e portarogli e' dinari. RUFINO. Cosí farò. Ah! ah! ah! CURZIO Che hai? di che te ridi? RUFINO. Rido, ché voi gli volete dare quelle cose che sète incerto di avere. CURZIO. Come ch'io ne sono incerto? Anzi, el contrario.

FORCA. Io sono cosí internato ne' pensieri, che sono fuora di me: il desidero piú di voi per vendicarmi di quel manigoldo. Penso e ripenso, e tuttavia non mi riesce nel cervello. Ma quel non aver danari mi fa venir il sudor della morte. PIRINO. Se avessimo danari, non sarebbono necessari gli inganni. FORCA. Io non dico cinquecento scudi, ma alcuni dinari maneschi per spendere e intricare.

Mi ha venduto un schiavo per cinquanta scudi, che val piú di cento, come a punto mi è stato chiesto da Filigenio. Mi ho guadagnato ducento scudi senza rischio e senza tormi dinari da mano in un batter d'occhio.