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Estebano ed Elisenda levavano in su gli occhi e il mento; la nascente lanugine delle guancie d'Estebano toccava la guancia d'Elisenda come l'ermellino ducale tocca il velluto principesco. Gli sguardi dei due giovanetti adagiati erano fissi sulle faccette d'un grosso diamante, che folgorava più d'ogni altra gemma.

Com'era bella, alla luce del cero, Elisenda, in vesti bianche! I suoi capelli parevano ambra pura, e le sue mani avevano il morbido contorno dell'agata lavorata; poi, strana cosa, eppur leggiadra, le sue labbra non erano porporine rosee, ma quasi bianche, e, assai divise nel mezzo, parevano composte con quattro foglie di tuberosa. L'adorazione d'Estebano s'era volta da Dio ad Elisenda.

Elisenda lo guardava atterrita, eppur beata, tanto era sublime quel fiero garzone in quell'atteggiamento di trionfo. Ma intanto la fiamma sconvolta divorava il cero e mordeva il dito d'Estebano. Quando il pesante candelabro fu ricollocato sul suo piedistallo, della torcia non rimaneva più che un mezzo pollice appena; le lettere H e I della sigla erano dileguate.

Giunti al culmine della torre, Elisenda spinse una porta ferrata e grave che ricadde dietro i passi d'Estebano. Eccoli nell'oratorio. Il cero santo arde per la morte del nonno ed illumina solo il religioso recinto.

Quel re di Leone che, ferito in battaglia, macchiò di azzurro la scimitarra del moro nemico, era un antenato dei nostri giovanetti reali. Le teste d'Elisenda e d'Estebano dovevano esser state create per portar nimbo o corona; un'aura monarchica e serafica si condensava attorno le loro fronti come una gloria, e i cieli d'oro di Zurbaran si abbozzavano vagamente dietro lo spazio in cui respiravano.

Un'antitesi tragica sorgeva da quelle due bionde figure adolescenti, schiacciate sotto una così polverosa catasta di ornamenti da trono. La stola d'Estebano gli si acuminava dietro il collo con una piega acuta sotto la nuca, e dura e tondeggiante sugli omeri. Una ragna cinerea gli cadeva da una punta della corona fin lungo l'orecchio e gli si perdea fra i capegli. Quei sacri arredi coprivano di maest

Elisenda soggiunse: Amen. I due cugini, così parlando, camminavano lentamente fra gli oscuri colonnati del castello. L'uniforme pestio degli sproni d'Estebano accompagnava lungo i marmi del cortile il fiero racconto d'Elisenda; tutto intorno era silenzio. Intanto la luna alzatasi splendeva gi

Mia soave Elisenda, la chiamava Estebano, mentre il suo cuore batteva convulso come l'ali d'una farfalla trafitta da uno spillo; poi continuava: Posa, posa la tua bianca mano sulla mia fronte e penserò dei poemi! ed Elisenda posava la mano sulla fronte d'Estebano.

Il silenzio era così grave che opprimeva l'orecchio. A un tratto Estebano esclamò quasi supplichevolmente: Oh! principessa, è lunga la vostra orazione! Elisenda rispose: Ho finito. E si guardarono negli occhi, stupefatti di non ispaventarsi. Lo sguardo d'Estebano penetrava nelle pupille di Elisenda profondo, lucido, sicuro, come una lama nella sua guaina. Chi c'è nel castello? chies'egli.

La corona d'Estebano, imperiale e chiusa, colla croce sul colmo, somigliava a quella di Carlo Magno, tranne che in giro apparivano cesellate le tre parole colle quali i romani battezzarono la provincia di Leone: Legio septima gemina.