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Egli così le inferne Sfere lasciando e le pugnaci erini, Che mortali accendean l'ire fraterne, E d'ombre orride e d'ossa Tarda e incerta facean l'orma ai destini, Errò, divo mendico; al ciel co' carmi Surse, e attinta del Ver l'aura e la possa, A inaspettati eventi Chiamò l'itale genti, Lor diè vita e parola e patria ed armi.

Poscia che l'accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte, Sordel si trasse, e disse: <<Voi, chi siete?>>. <<Anzi che a questo monte fosser volte l'anime degne di salire a Dio, fur l'ossa mie per Ottavian sepolte. Io son Virgilio; e per null'altro rio lo ciel perdei che per non aver fe'>>. Cosi` rispuose allora il duca mio.

Maggior paura non credo che fosse, Quando Fetonte abandonò gli freni, Per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse

L'uomo e le sue tombe E l'estreme sembianze e le reliquie Della terra e del ciel travolge il tempo.

Ma Gregorio da lui poi si divise; onde, si` tosto come li occhi aperse in questo ciel, di se' medesmo rise. E se tanto secreto ver proferse mortale in terra, non voglio ch'ammiri; che' chi 'l vide qua su` gliel discoperse con altro assai del ver di questi giri>>. Paradiso: Canto XXIX Quando ambedue li figli di Latona, coperti del Montone e de la Libra, fanno de l'orizzonte insieme zona,

Son io la veritá, son io l'acume del raggio che, volendo, sempre avrai: persona i' son de l'inscrutabil nume. Io son l'amor divin, che ti criai uomo simile mio, del ciel consorte, se 'l cor porgi che pria t'addimandai. «Graminibus pecudes pascuntur, rore cicadae | Quadrupedum tigres sanguine, corde Deus». A te il mio regno, a me il tuo cor per sorte convien.

E come ’l volger del ciel de la luna cuopre e discuopre i liti sanza posa, così fa di Fiorenza la Fortuna: per che non dee parer mirabil cosa ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini onde è la fama nel tempo nascosa. Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, gi

e come saetta che nel segno percuote pria che sia la corda queta, così corremmo nel secondo regno. Quivi la donna mia vid’ io lieta, come nel lume di quel ciel si mise, che più lucente se ne ’l pianeta. E se la stella si cambiò e rise, qual mi fec’ io che pur da mia natura trasmutabile son per tutte guise!

Se ancora feconda Dal sasso deriva limpida e piena, Se ancor nelle sabbie de' secoli abbonda, O madre, la pura italica vena, Sia caro l'augurio! l'umano destino Dai cento ruscelli che versa Appennino, Se al ciel non contrasti la sorte nemica, Attenda una luce che vinca l'antica.

Stavami, su quel punto che la terra tutta tremò, non men for di me stesso che 'l viandante, il quale mentre ch'erra cercando un tetto, perché un nimbo spesso li tona in capo, il fulmine si sferra dal ciel gridando e piantasigli appresso, ché un'alta pioppa in sua presenzia tocca e tutta in foco e fumo la dirocca. Non temer d'alcun ciel che ti minaccia, ché bella botta non mai colse augello!