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Cosí le morti, i martíri e i dolori, per dar vita a noi altri, egli sopporta: onde, s'io l'amo! ARTEMONA. Non dir piú: t'ho inteso. Il tuo amore è 'l boccale. PILASTRINO. Tu l'hai detto: con la minestra e la carne e la torta e tutti gli animai, gli uccelli e pesci e ancor con tutte le manifatture de l'arte di cucina. Parti ch'abbia perduto il senno, come soglion gli altri innamorati?

PILASTRINO. Prima, non è mai stato al mondo alcuno verso l'amata sua forte acceso quanto son io: perché, se è il lor d'un mese, d'un anno o dieci, io giá son quaranta anni che lo portai del corpo di mia madre; perché nacqui con esso e i nostri antichi tutti, in millanta gradi, sono stati perduti in questo. ARTEMONA. Questo omai si sa.

Artemona, parlando con Pilastrino, mostra averli racconto l'offizio che ha fatto per Crisaulo e quello che ha pensato perché egli fra poco ottenga, come si vedrá. E, in questo, Pilastrino le narra tutti li accidenti del suo amore che sono circa il mangiare e il bere. PILASTRINO. Sai per sette. Sempre ho sperato in te. ARTEMONA. Omai la cosa passa per suoi piè.

CRISAULO. Ben l'avev'io pensato: ché la cognosco per la piú crudele, la piú ingrata e scortese che nascesse mai sotto il cielo. Ahi lasso sfortunato! Questo è 'l buon guidardon di tanta fede? Deh non foss'io mai nato! ARTEMONA. Taci, dico. Ascolta. CRISAULO. , s'io posso: ch'io mi sento mancar l'anima dentro. Ma che fia?

ARTEMONA. Non ho tempo ora, ché ti direi una mia fantasia sopra di questo; ma ci voglio meglio pensar. Lascia, ch'io vengo infra duo giorni con qualche aiuto. Fa' che, in questo mezzo, tu non ti pigli affanno. CRISAULO. Iddio volesse che lo potessi far! ARTEMONA. Fa' di sforzarti. CRISAULO. Deh!

Oh se tu fossi, figlio, quel ch'io ti prego ognor! CRISAULO. Non è in proposito. E poi fai 'l grande meco. ARTEMONA. Odi. Oh paradiso! Biat'a lor che v'andranno! CRISAULO. Io non ricerco i tuoi travagli. Dimmi se facesti di quella mia. ARTEMONA. , . Lasciami dire. Da poi ch'io ti trovai v'ho messo mano; e 'l dopo, in bel modo, feci a Lúcia, ridendo, cenno di voler parlarli.

ARTEMONA. Quel che vuoi, speranza. Non mi fare indugiar, ché non è ora da star per via. TIMARO. Non dubitar, figliuola, ché non sarai rubbata. ARTEMONA. Oh! Basterebbe perder l'onor. TIMARO. Che? la verginitá? Se tu non perdi quelle che hai venduto... che son piú d'un million. ARTEMONA. Dissi l'onore. TIMARO. Oh! l'onor c'hai struziato a mille amanti e mille donne.

E, partitesi l'una da l'altra, Fronesia si pensa di non cercar piú Filocrate ma fare, in favor di Crisaulo, uno inganno a Lúcia. ARTEMONA. Che farai, vecchia? Vuoi dare a Crisaulo questa cattiva nuova? Io veggio certo che non si fa per te. Gliel dirò pure; ma in destro modo. E vo' veder s'io posso farlo suonar di qualche bolognino per riavermi di quella paura che m'ha fatto colei.

Artemona, parlando con Lúcia, fa destramente offizio per Crisaulo: e, parlando poi con la madre, le intenzione che Crisaulo la sposerá. ARTEMONA. Oh! Non pensare: ché lo vidi a la prima che tu eri d'altro adirata. E però feci poca stima de le parole, ché altrimenti non ci sarei tornata: ché, dove uso, son troppo avezza ad esser ben veduta e accarezzata.

CRISAULO. Non ti dico altro se non che quanto mai ce n'è bisogno: ché so ben come sto. Fa' di servirmi e serviti di me. ARTEMONA. Ti vo' contare. Quella farina, ch'è forse otto giorni che mi mandasti a casa, il mio figliuolo, quel maritato, venne, non ier l'altro, quand'io non era in casa, e se la prese dicendo che n'ha piú di me bisogno.